Oggi, 24 Giugno, è San Giovanni, patrono di Firenze. Alle 18, come da tradizione, si giocherà la finale del calcio storico fiorentino tra i bianchi di San Frediano e gli azzurri di Santa Croce.
Il calcio storico, conosciuto anche col nome di calcio in livrea o calcio in costume, è una disciplina sportiva che affonda le sue origini indietro nel tempo, infatti in latino era chiamato "florentinum harpastum". Consiste in un gioco a squadre e da molti è considerato come il padre del gioco del calcio, anche se, almeno nei fondamentali, ricorda molto più il rugby.
Sperando che un giorno mi venga proposto di ricoprire il ruolo di Magnifico Messere, per festeggiare vi regalo un racconto noir che ha per protagonista proprio il calcio in costume e che è stato pubblicato nell'antologia "Delitti per sport" edita da Marco Del Bucchia.
Buona lettura e buon San Giovanni.
Sperando che un giorno mi venga proposto di ricoprire il ruolo di Magnifico Messere, per festeggiare vi regalo un racconto noir che ha per protagonista proprio il calcio in costume e che è stato pubblicato nell'antologia "Delitti per sport" edita da Marco Del Bucchia.
Buona lettura e buon San Giovanni.
Delitto
in livrea
di
Giuseppe Di Bernardo
Anche
se chiudo gli occhi, quell'immagine non scompare.
È
enorme il Cecchi, veramente grosso. Mi ricorda un cinghiale con quei
suoi capelli neri ritti sulla testa come setole. Lo vedo sdraiato a
terra, faccia in su, a non più di un paio di metri da me. Respira
ancora mentre la macchia di sangue inzuppa quella che fino a pochi
minuti fa era una candida livrea bianca. Scalcia, il Cecchi, e si
tiene le mani sporche di rena strette intorno alla carotide. Fissa un
punto in alto nel cielo sopra le teste delle ottomila persone
accalcate sulle gradinate di ferro montate in piazza signoria. Stanno
tutti zitti, il boato del pubblico che ha accompagnato la caccia dei
bianchi si è smorzato improvvisamente.
Al
Cecchi piaceva l'idea di avere tutti gli occhi addosso, per quello
era diventato un giocatore del calcio storico, ma ora sembra anche
imbarazzato mentre tutta quella gente lo guarda a pochi metri dalla
rete degli azzurri.
Il
Cecchi, ora è più simile alla fontanella di vino di Carmignano che
a un marcantonio di quasi cento chili.
Sono
seduto in una stanza della caserma dei carabinieri di Firenze e ho le
manette ai polsi, e la mano destra ferita, eppure non riesco a
smettere di sorridere. Ho ancora i pantaloni della livrea addosso,
mentre sulle spalle mi hanno buttato una giacca di chissà chi. Il
sudore mi ha seccato la rena sulla pelle e ho il labbro rotto. No,
non è stato uno scontro di gioco, non ne quasi avuto il tempo. Mi
hanno rotto il labbro con un pugno. Volevano linciarmi, ma la
sicurezza mi ha trascinato via.
La
partita era iniziata da quindici minuti, almeno credo, perché
sinceramente avevo un po' perso il senso del tempo. I miei compagni
non facevano altro che riprendermi. Il Pini, uno dei cinque
Sconciatori, il più stronzo, mi è venuto davanti a pochi centimetri
dal muso e ha gridato:
“Ma
che cazzo fai, Brogi? Stai dormendo? Ti passano accanto e neppure te
ne accorgi!”
Per
forza, ho pensato. Non li guardavo i miei avversari, ne puntavo uno,
uno degli Innanzi dei bianchi, e aspettavo il momento che entrasse
nella mia zona di campo. L'avevo quasi acciuffato un paio di volte.
“Brutto
figlio di puttana!” Glielo avevo urlato in un orecchio, mentre gli
serravo il collo tra le braccia, ma lui era riuscito a divincolarsi e
non sembrava neppure avermi sentito. La seconda volta era finita in
una mischia e il Maestro di campo ci aveva diviso.
Era
giovane il Cecchi, quasi dieci anni meno di me, e quando non faceva
il calciante era bidello del Liceo Artistico, la scuola di Silvia.
Silvia, la mia bambina.
Silvia
frequenta il secondo anno e una sera, al mio rientro dal cantiere, mi
corse in contro e mi disse:
“Lo
sai che il nostro bidello gioca nei bianchi?”
“Bella
razza!” gli risposi io, “In Santo
spirito
c'è solo gentaccia.”
“Ma
smettila, babbo, mica siamo più negli anni settanta! Ancora con
queste menate sui quartieri storici. Guarda che non è di Santa
Croce, il mio fidanzato!”
Che
fidanzato? Silvia ha appena quindici anni, è solo una bambina.
Ecco
che mi torna l'immagine del Cecchi agonizzante nel catino di Santa
Croce. Ti sta bene, Cecchi, e se tornassi indietro lo rifarei senza
pensarci troppo su. Eri un porco e sei finito sgozzato come un
maiale.
Mi
ero accorto che da qualche settimana, Silvia si era fatta strana. In
un primo momento sembrava che avesse superato bene la morte della
madre, avvenuta l'anno scorso, ma ora la mia bambina sembrava
nervosa, scostante, chiusa. L'età, avevo pensato, o forse
quei problemi con la professoressa di chimica che la voleva far
bocciare.
Una
sera ero entrato senza bussare nella stanza di mia figlia. L'avevo
vista richiudere il diario con uno scatto brusco, e riporlo, facendo
finta di nulla, nel cassetto della sua scrivania. Aveva il corso di
danza, quella sera. Balla bene, anche se fa danza moderna non
classica come avrei preferito io.
Ne
parlo come se fosse successo mille anni fa, faccio fatica a
convincermi che è accaduto solo ieri sera, alla vigilia della prima
partita del Calcio Storico.
Ero
nervoso, sarebbe stato il mio ultimo torneo, perchè ormai di botte
ne avevo prese parecchie. Vent'anni di calci, pugni e qualche volta
morsi, ti segnano nel corpo ma anche nello spirito.
Il
mio ruolo è sempre stato il Datore Innanzi, volgarmente chiamato
terzino. A me toccava di fermare il gioco avversario e far ripartire
la manovra. Una volta ho anche segnato una caccia. Una sola in tutta
la carriera, ma la ricordo bene. Soprattutto ricordo lo schioppo
della Colubrina e l'urlo del pubblico di Santa Croce.
Ero
in salotto, avevo spento la televisione e chiuso gli occhi. Ascoltavo
un CD con musiche medievali, lo faccio sempre prima di una gara,
serve a calarsi nella parte.
Tante
volte ho sognato di partecipare alla partita che si è svolta il 17
febbraio del 1530, quando, durante l'assedio della città, i
fiorentini, fieri e irriverenti, giocarono una partita proprio in
Santa Croce, al solo scopo di farsi vedere dal nemico e irriderlo.
Stavo
fantasticando sul coraggio dei miei concittadini, quando una idea
iniziò a farsi largo nella mia mente. Silvia non sarebbe tornata
prima di quaranta minuti e io avrei avuto tutto il tempo per fare
quello che un padre non dovrebbe mai fare.
Mi
alzai, spensi lo stereo, allo scopo di avvertire gli eventuali rumori
provenienti dalle scale. Attraversai l'ingresso e mi soffermai per un
attimo sulla porta della camera di Silvia.
Stavo
facendo la cosa giusta? Violare la sua piccola intimità per
assicurarmi che problemi maggiori non la affliggessero?
Con
passo lento, quasi non volessi fare rumore, entrai nella sua camera.
Era diventata un po' disordinata dopo la morte della mamma, ma è
comprensibile in una bambina della sua età.
Aprii
il cassetto e il diario di Silvia era dove lo aveva lasciato la sera
prima. Glielo avevo regalato io qualche giorno dopo la morte della
mamma. Aveva una copertina azzurra con delle stelline gialle
disegnate sopra, forse non le era piaciuta troppo la grafica, ma non
era importante, volevo che scrivesse per liberarsi del dolore che le
premeva dentro e che non trovava valvole di sfogo. Silvia teneva
tutto dentro di sé, non aveva pianto una lacrima neppure il giorno
del funerale. Me la ricordo nel suo vestitino nero, con la pelle
bianca e i lunghi capelli rossi raccolti in una treccia che la
facevano ancora più piccola dei suoi quattordici anni. Qualche
giorno dopo, quasi presa da un raptus di autodistruzione, se li era
tagliati. Ora andava in giro con i capelli corti da maschietto, e
ogni volta che la guardavo sentivo una fitta al cuore. Non potevo
fare a meno di ricordarmi sua madre che glieli pettinava
amorevolmente per interi pomeriggi domenicali. Stava sempre con lei,
Sara era una madre eccezionale.
“Ti
voglio bene, mamma.” Era la prima frase scritta sul diario. Sotto
aveva attaccato una foto scattata la mattina di quella maledetta gita
sulle Apuane.
Stavamo
facendo una escursione con degli amici e percorrevamo l’erta
mulattiera che scende all’Eremo di S. Viano, incassato in una
parete rocciosa a strapiombo sulla Valle di Arnetola. Silvia doveva
fare pipì e sua madre non voleva che si allontanasse da sola, così
si erano appartate lontane da occhi indiscreti.
Le
nostre chiacchiere e le risate erano state improvvisamente interrotte
da un urlo straziante.
Avevo
riconosciuto bene quella voce, ma non volevo accettare l'evidenza.
Quasi in uno stato di trance mi ero voltato nella direzione
dell'urlo, e avevo visto corrermi incontro mia figlia in preda ad una
crisi isterica.
Due
ore dopo i soccorsi avevano recuperato il corpo senza vita di mia
moglie deturpato dalle rocce. Sara aveva perso l'equilibrio ed era
caduta in un dirupo profondo un centinaio di metri.
Povera
Silvia, aveva visto precipitare sua madre, l'aveva osservata
impotente mentre si schiantava sulle rocce.
Scacciai
quei ricordi dalla mia memoria, ora nella stanza di Silvia c'era un
silenzio irreale, assordante. Sembrava che anche Firenze, là fuori,
si fosse zittita improvvisamente, e che attraverso le finestre della
nostra casa, osservasse, con morbosa curiosità, un padre che legge
di nascosto il diario della figlia. Non avevo più molto tempo, così
lo sfogliai velocemente e andai alle ultime pagine.
Caro
diario, sono andata in bagno durante l'ora di disegno dal vero. Ero
appena entrata che ho sentito la porta sbattere alle mie spalle.
Quello stronzo mi ha preso e sbattuta contro il muro. Mi sono
voltata, e davanti a me c'era quel gigante che mi alitava in faccia.
Il suo fiato puzzava di fumo e caffè. Era quello nuovo, quello che
gioca nei bianchi. Si chiama Giulio Cecchi. E sai cosa mi ha detto,
spingendomi al muro?
“Ora
me la dai, piccola troia.”
In
piedi nel mezzo della camera di mia figlia, col suo diario segreto in
mano, avevo iniziato a tremare come una foglia.
La
mia bambina violentata nel bagno della scuola da un porco di cento
chili. No, era un incubo, non poteva essere vero.
Il
Cecchi, lo avevo visto un paio di volte e ci avevo anche giocato
contro. Cosa avrei dovuto fare? Denunciarlo? Portare il diario alla
polizia, sottoporre mia figlia all'umiliazione di un processo, darla
in pasto agli occhi lascivi di giurati e pubblico? Una storia come
questa sarebbe finita sui giornali, sulla bocca di una città, che
costruisce la tramvia per diventare metropoli, ma che con queste
storie si ritrova pettegolo paesino di provincia.
Come
avrebbe reagito Silvia a questa vergogna? Cosa sarebbe successo nella
sua mente già sconvolta dalla tragica perdita della mamma?
Il
Cecchi.
Tra
poche ore saremmo scesi in campo l'uno contro l'altro, bianchi contro
azzurri. Lo avrei affrontato lì, prima mi sarei sfogato contro di
lui, poi avrei deciso il da farsi.
La
mia mano ha ripreso a sanguinare. È un brutto taglio sul palmo, mi
sa che ci metteranno dei punti. Al Cecchi, i punti, ormai non servono
più. Chissà se aveva una fidanzata o una moglie, magari era tra il
pubblico, forse glie l'ho ucciso sotto gli occhi. Anche lei si sarà
sentita impotente mentre strillava il suo dolore.
“È
arrivata sua figlia.”
Un
carabiniere fermo sulla porta fa entrare la mia piccola Silvia. Se è
possibile, la vedo ancora più pallida del solito. Si trascina dietro
una bandiera degli azzurri, sembra Linus con la sua coperta stretta
nel pugno. Mi aspetto da un momento che si metta il pollice in bocca,
ma non lo fa. Si siede di fronte a me e mi fissa come se neppure mi
riconoscesse. Ha gli occhi rossi deve aver pianto molto. Povera
Silvia, povera bambina mia.
“Con
che cosa l'hai ucciso?” Finalmente apre bocca per pormi una domanda
che non mi aspettavo.
“Con
una scheggia di vetro.” Risposi.
“Lo
volevo strozzare a mani nude, ma non ci sono riuscito. Poi ho visto
un riflesso nella rena. Il gioco era lontano, nessuno faceva caso a
me, e mi sono avvicinato. Mezza sotterrata c'era una lunga scheggia
di vetro. Non sarebbe dovuta essere lì, e non riesco neppure a
capire come ci sia arrivata. Era un segno, capisci? Raccoglierla e
tagliare la gola a quel porco era la cosa giusta da fare.”
“L'ho
fatto per te, Silvia.” Le dico, accarezzandola.
Lei
mi guarda con gli occhi sgranati e la bocca leggermente socchiusa di
chi si stupisce di una storia che ascolta per la prima volta.
“Ho
letto il diario. Ho letto quello che ti ha fatto quel porco del
Cecchi. Ha fatto solo la fine che meritava.”
Gli
occhi spenti di mia figlia sembrano accendersi improvvisamente.
“Ci
sarà un processo, e tutti sapranno che quello mi ha violentata.”
Detto questo mi getta le braccia al collo e finalmente si mette a
piangere, il pianto straziante di una figlia stuprata nel bagno della
scuola.
“Ti
prego, babbo, non glielo dire, non raccontargli quello che mi ha
fatto. Io voglio solo dimenticare, e cancellare il suo brutto muso
dalla memoria.”
Sì,
ha ragione la mia piccola Silvia. Ad ogni udienza, ad ogni articolo,
ad ogni chiacchiera rionale, lei sarebbe stata nuovamente violentata.
E io che vantaggio ne avrei tratto? Al massimo uno sconto di pena,
qualche anno di libertà da scambiare con una montagna di fango
rovesciata sulla mia bambina.
“Va
bene” le dico. “Sarà il nostro piccolo segreto. Adesso vai a
casa e brucia il tuo diario azzurro. Non dovrai mai più ricordare
cosa è successo in quel maledetto bagno”.
Caro
diario, oggi, quando ho visto mio padre tagliare la gola al Cecchi ho
pensato di stare sognando.
Oh,
ma forse bisogna fare un passo indietro, perché mi sono accorta che
quello che ho scritto ieri sera può essere facilmente frainteso. Mi
rendo conto solo adesso di quanto sia ambigua quella frase, e forse
anche tu, come il mio povero babbo, hai capito male.
Facciamo
un passo indietro.
Circa
due settimane fa si è tenuta a scuola un'assemblea d'istituto, una
noiosissima riunione dove il rappresentante parla delle politiche
scolastiche, mentre tutti gli altri ascoltano l'Ipod, giocano col
telefonino, o fumano di nascosto. Mancavano delle sedie, e la prof di
modellato mi aveva spedito a prenderne un po' al piano interrato.
Scendo
le scale che già mi giravano le scatole all'idea di risalirle carica
di tutte quelle sedie. Io sono una artista, mica una facchina!
Comunque, apro la porta del magazzino cercando di fare il massimo
silenzio, e mi guardo intorno nell'oscurità dello stanzone. Più di
una volta, tra i cavalletti e le tavolette ammassate alla rinfusa, ho
avvistato qualche schifoso topo.
Un
rumore soffocato attira la mia attenzione. È continuo e ritmato e
sembra provenire da in fondo alla stanza.
Mi
avvicino senza fare casino, mentre il rumore si mescola a quello che
apparentemente sembrava un lieve lamento. Giro intorno ad una copia
in gesso della Venere del Canova e improvvisamente li vedo. La
professoressa di chimica e il bidello, quello nuovo, quello grande e
grosso che gioca al calcio in costume. Sì, caro diario, proprio il
Cecchi.
In
un primo momento non so perché l'ho fatto, ma ho preso il mio
videofonino e gli ho fatto una foto. Erano venuti proprio bene, lei
con la bocca socchiusa e lui tutto sudato che ci dava dentro con il
pantalone calato alle ginocchia. Non gli ho disturbati oltre, ho
preso le mie sedie e li ho lasciati fare. Loro, indaffarati
com'erano, non si sono accorti della mia presenza.
La
sera stessa ho stampato una bella foto dei due amanti e ho aspettato
la pausa pranzo del giorno
dopo per raggiungere la prof di chimica che si stava gustando
beatamente una Camel light.
“Non
credo che suo marito sarebbe contento di vedere questa foto”. Le ho
detto mentre le mostravo lo scatto del giorno prima. Lei ci è
veramente rimasta di merda e le è anche caduta la sigaretta di mano.
“Sì,
lo so che abbiamo avuto delle piccole tensioni, ma d'ora in poi,
possiamo diventare grandi amiche. Dobbiamo solo venirci un po'
incontro. Per prima cosa quel quattro che ho preso all'ultima
interrogazione vorrei che diventasse un bel sette, anzi, facciamo
otto. Poi, visto che le vacanze si avvicinano, avrei giusto bisogno
di un contributo per il viaggio che voglio fare. Che ne direbbe di un
migliaio di euro?”
Se
avesse potuto mi avrebbe ammazzata di botte, le si leggeva in faccia,
ma mi ha detto: “va bene”.
Non
so se la prof ci ha ripensato o se ne ha parlato con il suo stallone,
ma lui ha deciso di affrontarmi nell'unico modo che conosce. Mi ha
beccato in bagno e sbattendomi al muro mi ha detto: “Adesso me la
dai, piccola troia!”. Intendeva la foto, naturalmente, c'era già
la prof che gli dava il resto.
Ero
nella merda, così gli ho dato la foto. Ma a quello stronzo non
bastava, ha iniziato a minacciarmi, diceva che a scuola mi avrebbe
reso la vita impossibile e che lo avrebbe detto anche a mio padre.
Eh,
sì, caro diario, ero sinceramente preoccupata.
Mi
stavo arrovellando il cervello alla ricerca di un modo per tappargli
la bocca, poi, sei arrivato tu, con quella frase ambigua che ha messo
in testa a mio padre l'idea che fossi stata stuprata. L'ho capito
durante il colloquio in caserma e ho sfruttato l'occasione.
Mio
padre starà in galera per un bel po' di tempo, e io sarò finalmente
libera di vivere la vita che voglio. Dopo la morte della mamma, lui è
diventato più ossessivo di lei, se possibile, ancora più
soffocante. Continuava a vedermi come la bambina che non sono più.
Mi sembrava di rivivere la situazione dello scorso anno con mia
madre, sempre appiccicata, sempre apprensiva e invadente. Soffocante.
Stavo
per raggiungere il limite di sopportazione anche con lui, ma lui,
grande e grosso com'è, non sarebbe stato altrettanto facile da
spingere giù in una scarpata.
Fine
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