Firma per riportare L'Insonne in edicola! Bastano pochi click!

lunedì 24 giugno 2013

"Delitto in livrea": un racconto noir ambientato durante una partita d Calcio Storico fiorentino

Oggi, 24 Giugno, è San Giovanni, patrono di Firenze. Alle 18, come da tradizione, si giocherà la finale del calcio storico fiorentino tra i bianchi di San Frediano e gli azzurri di Santa Croce.
Il calcio storico, conosciuto anche col nome di calcio in livrea o calcio in costume, è una disciplina sportiva che affonda le sue origini indietro nel tempo, infatti in latino era chiamato "florentinum harpastum". Consiste in un gioco a squadre e da molti è considerato come il padre del gioco del calcio, anche se, almeno nei fondamentali, ricorda molto più il rugby.
Sperando che un giorno mi venga proposto di ricoprire il ruolo di Magnifico Messere, per festeggiare vi regalo un racconto noir che ha per protagonista proprio il calcio in costume e che è stato pubblicato nell'antologia "Delitti per sport" edita da Marco Del Bucchia.
Buona lettura e buon San Giovanni. 


 Delitto in livrea
di Giuseppe Di Bernardo

Anche se chiudo gli occhi, quell'immagine non scompare.
È enorme il Cecchi, veramente grosso. Mi ricorda un cinghiale con quei suoi capelli neri ritti sulla testa come setole. Lo vedo sdraiato a terra, faccia in su, a non più di un paio di metri da me. Respira ancora mentre la macchia di sangue inzuppa quella che fino a pochi minuti fa era una candida livrea bianca. Scalcia, il Cecchi, e si tiene le mani sporche di rena strette intorno alla carotide. Fissa un punto in alto nel cielo sopra le teste delle ottomila persone accalcate sulle gradinate di ferro montate in piazza signoria. Stanno tutti zitti, il boato del pubblico che ha accompagnato la caccia dei bianchi si è smorzato improvvisamente.
Al Cecchi piaceva l'idea di avere tutti gli occhi addosso, per quello era diventato un giocatore del calcio storico, ma ora sembra anche imbarazzato mentre tutta quella gente lo guarda a pochi metri dalla rete degli azzurri.
Il Cecchi, ora è più simile alla fontanella di vino di Carmignano che a un marcantonio di quasi cento chili.

Sono seduto in una stanza della caserma dei carabinieri di Firenze e ho le manette ai polsi, e la mano destra ferita, eppure non riesco a smettere di sorridere. Ho ancora i pantaloni della livrea addosso, mentre sulle spalle mi hanno buttato una giacca di chissà chi. Il sudore mi ha seccato la rena sulla pelle e ho il labbro rotto. No, non è stato uno scontro di gioco, non ne quasi avuto il tempo. Mi hanno rotto il labbro con un pugno. Volevano linciarmi, ma la sicurezza mi ha trascinato via.
La partita era iniziata da quindici minuti, almeno credo, perché sinceramente avevo un po' perso il senso del tempo. I miei compagni non facevano altro che riprendermi. Il Pini, uno dei cinque Sconciatori, il più stronzo, mi è venuto davanti a pochi centimetri dal muso e ha gridato:
“Ma che cazzo fai, Brogi? Stai dormendo? Ti passano accanto e neppure te ne accorgi!”
Per forza, ho pensato. Non li guardavo i miei avversari, ne puntavo uno, uno degli Innanzi dei bianchi, e aspettavo il momento che entrasse nella mia zona di campo. L'avevo quasi acciuffato un paio di volte.
“Brutto figlio di puttana!” Glielo avevo urlato in un orecchio, mentre gli serravo il collo tra le braccia, ma lui era riuscito a divincolarsi e non sembrava neppure avermi sentito. La seconda volta era finita in una mischia e il Maestro di campo ci aveva diviso.
Era giovane il Cecchi, quasi dieci anni meno di me, e quando non faceva il calciante era bidello del Liceo Artistico, la scuola di Silvia. Silvia, la mia bambina.
Silvia frequenta il secondo anno e una sera, al mio rientro dal cantiere, mi corse in contro e mi disse:
“Lo sai che il nostro bidello gioca nei bianchi?”
“Bella razza!” gli risposi io, “In Santo spirito c'è solo gentaccia.”
“Ma smettila, babbo, mica siamo più negli anni settanta! Ancora con queste menate sui quartieri storici. Guarda che non è di Santa Croce, il mio fidanzato!”
Che fidanzato? Silvia ha appena quindici anni, è solo una bambina.
Ecco che mi torna l'immagine del Cecchi agonizzante nel catino di Santa Croce. Ti sta bene, Cecchi, e se tornassi indietro lo rifarei senza pensarci troppo su. Eri un porco e sei finito sgozzato come un maiale.

Mi ero accorto che da qualche settimana, Silvia si era fatta strana. In un primo momento sembrava che avesse superato bene la morte della madre, avvenuta l'anno scorso, ma ora la mia bambina sembrava nervosa, scostante, chiusa. L'età, avevo pensato, o forse quei problemi con la professoressa di chimica che la voleva far bocciare.

Una sera ero entrato senza bussare nella stanza di mia figlia. L'avevo vista richiudere il diario con uno scatto brusco, e riporlo, facendo finta di nulla, nel cassetto della sua scrivania. Aveva il corso di danza, quella sera. Balla bene, anche se fa danza moderna non classica come avrei preferito io.
Ne parlo come se fosse successo mille anni fa, faccio fatica a convincermi che è accaduto solo ieri sera, alla vigilia della prima partita del Calcio Storico.
Ero nervoso, sarebbe stato il mio ultimo torneo, perchè ormai di botte ne avevo prese parecchie. Vent'anni di calci, pugni e qualche volta morsi, ti segnano nel corpo ma anche nello spirito.
Il mio ruolo è sempre stato il Datore Innanzi, volgarmente chiamato terzino. A me toccava di fermare il gioco avversario e far ripartire la manovra. Una volta ho anche segnato una caccia. Una sola in tutta la carriera, ma la ricordo bene. Soprattutto ricordo lo schioppo della Colubrina e l'urlo del pubblico di Santa Croce.

Ero in salotto, avevo spento la televisione e chiuso gli occhi. Ascoltavo un CD con musiche medievali, lo faccio sempre prima di una gara, serve a calarsi nella parte.
Tante volte ho sognato di partecipare alla partita che si è svolta il 17 febbraio del 1530, quando, durante l'assedio della città, i fiorentini, fieri e irriverenti, giocarono una partita proprio in Santa Croce, al solo scopo di farsi vedere dal nemico e irriderlo.
Stavo fantasticando sul coraggio dei miei concittadini, quando una idea iniziò a farsi largo nella mia mente. Silvia non sarebbe tornata prima di quaranta minuti e io avrei avuto tutto il tempo per fare quello che un padre non dovrebbe mai fare.
Mi alzai, spensi lo stereo, allo scopo di avvertire gli eventuali rumori provenienti dalle scale. Attraversai l'ingresso e mi soffermai per un attimo sulla porta della camera di Silvia.
Stavo facendo la cosa giusta? Violare la sua piccola intimità per assicurarmi che problemi maggiori non la affliggessero?
Con passo lento, quasi non volessi fare rumore, entrai nella sua camera. Era diventata un po' disordinata dopo la morte della mamma, ma è comprensibile in una bambina della sua età.
Aprii il cassetto e il diario di Silvia era dove lo aveva lasciato la sera prima. Glielo avevo regalato io qualche giorno dopo la morte della mamma. Aveva una copertina azzurra con delle stelline gialle disegnate sopra, forse non le era piaciuta troppo la grafica, ma non era importante, volevo che scrivesse per liberarsi del dolore che le premeva dentro e che non trovava valvole di sfogo. Silvia teneva tutto dentro di sé, non aveva pianto una lacrima neppure il giorno del funerale. Me la ricordo nel suo vestitino nero, con la pelle bianca e i lunghi capelli rossi raccolti in una treccia che la facevano ancora più piccola dei suoi quattordici anni. Qualche giorno dopo, quasi presa da un raptus di autodistruzione, se li era tagliati. Ora andava in giro con i capelli corti da maschietto, e ogni volta che la guardavo sentivo una fitta al cuore. Non potevo fare a meno di ricordarmi sua madre che glieli pettinava amorevolmente per interi pomeriggi domenicali. Stava sempre con lei, Sara era una madre eccezionale.
“Ti voglio bene, mamma.” Era la prima frase scritta sul diario. Sotto aveva attaccato una foto scattata la mattina di quella maledetta gita sulle Apuane.
Stavamo facendo una escursione con degli amici e percorrevamo l’erta mulattiera che scende all’Eremo di S. Viano, incassato in una parete rocciosa a strapiombo sulla Valle di Arnetola. Silvia doveva fare pipì e sua madre non voleva che si allontanasse da sola, così si erano appartate lontane da occhi indiscreti.
Le nostre chiacchiere e le risate erano state improvvisamente interrotte da un urlo straziante.
Avevo riconosciuto bene quella voce, ma non volevo accettare l'evidenza. Quasi in uno stato di trance mi ero voltato nella direzione dell'urlo, e avevo visto corrermi incontro mia figlia in preda ad una crisi isterica.
Due ore dopo i soccorsi avevano recuperato il corpo senza vita di mia moglie deturpato dalle rocce. Sara aveva perso l'equilibrio ed era caduta in un dirupo profondo un centinaio di metri.
Povera Silvia, aveva visto precipitare sua madre, l'aveva osservata impotente mentre si schiantava sulle rocce.

Scacciai quei ricordi dalla mia memoria, ora nella stanza di Silvia c'era un silenzio irreale, assordante. Sembrava che anche Firenze, là fuori, si fosse zittita improvvisamente, e che attraverso le finestre della nostra casa, osservasse, con morbosa curiosità, un padre che legge di nascosto il diario della figlia. Non avevo più molto tempo, così lo sfogliai velocemente e andai alle ultime pagine.

Caro diario, sono andata in bagno durante l'ora di disegno dal vero. Ero appena entrata che ho sentito la porta sbattere alle mie spalle. Quello stronzo mi ha preso e sbattuta contro il muro. Mi sono voltata, e davanti a me c'era quel gigante che mi alitava in faccia. Il suo fiato puzzava di fumo e caffè. Era quello nuovo, quello che gioca nei bianchi. Si chiama Giulio Cecchi. E sai cosa mi ha detto, spingendomi al muro?
Ora me la dai, piccola troia.”

In piedi nel mezzo della camera di mia figlia, col suo diario segreto in mano, avevo iniziato a tremare come una foglia.
La mia bambina violentata nel bagno della scuola da un porco di cento chili. No, era un incubo, non poteva essere vero.
Il Cecchi, lo avevo visto un paio di volte e ci avevo anche giocato contro. Cosa avrei dovuto fare? Denunciarlo? Portare il diario alla polizia, sottoporre mia figlia all'umiliazione di un processo, darla in pasto agli occhi lascivi di giurati e pubblico? Una storia come questa sarebbe finita sui giornali, sulla bocca di una città, che costruisce la tramvia per diventare metropoli, ma che con queste storie si ritrova pettegolo paesino di provincia.
Come avrebbe reagito Silvia a questa vergogna? Cosa sarebbe successo nella sua mente già sconvolta dalla tragica perdita della mamma?
Il Cecchi.
Tra poche ore saremmo scesi in campo l'uno contro l'altro, bianchi contro azzurri. Lo avrei affrontato lì, prima mi sarei sfogato contro di lui, poi avrei deciso il da farsi.

La mia mano ha ripreso a sanguinare. È un brutto taglio sul palmo, mi sa che ci metteranno dei punti. Al Cecchi, i punti, ormai non servono più. Chissà se aveva una fidanzata o una moglie, magari era tra il pubblico, forse glie l'ho ucciso sotto gli occhi. Anche lei si sarà sentita impotente mentre strillava il suo dolore.
“È arrivata sua figlia.”
Un carabiniere fermo sulla porta fa entrare la mia piccola Silvia. Se è possibile, la vedo ancora più pallida del solito. Si trascina dietro una bandiera degli azzurri, sembra Linus con la sua coperta stretta nel pugno. Mi aspetto da un momento che si metta il pollice in bocca, ma non lo fa. Si siede di fronte a me e mi fissa come se neppure mi riconoscesse. Ha gli occhi rossi deve aver pianto molto. Povera Silvia, povera bambina mia.
“Con che cosa l'hai ucciso?” Finalmente apre bocca per pormi una domanda che non mi aspettavo.
“Con una scheggia di vetro.” Risposi.
“Lo volevo strozzare a mani nude, ma non ci sono riuscito. Poi ho visto un riflesso nella rena. Il gioco era lontano, nessuno faceva caso a me, e mi sono avvicinato. Mezza sotterrata c'era una lunga scheggia di vetro. Non sarebbe dovuta essere lì, e non riesco neppure a capire come ci sia arrivata. Era un segno, capisci? Raccoglierla e tagliare la gola a quel porco era la cosa giusta da fare.”
“L'ho fatto per te, Silvia.” Le dico, accarezzandola.
Lei mi guarda con gli occhi sgranati e la bocca leggermente socchiusa di chi si stupisce di una storia che ascolta per la prima volta.
“Ho letto il diario. Ho letto quello che ti ha fatto quel porco del Cecchi. Ha fatto solo la fine che meritava.”
Gli occhi spenti di mia figlia sembrano accendersi improvvisamente.
“Ci sarà un processo, e tutti sapranno che quello mi ha violentata.” Detto questo mi getta le braccia al collo e finalmente si mette a piangere, il pianto straziante di una figlia stuprata nel bagno della scuola.
“Ti prego, babbo, non glielo dire, non raccontargli quello che mi ha fatto. Io voglio solo dimenticare, e cancellare il suo brutto muso dalla memoria.”
Sì, ha ragione la mia piccola Silvia. Ad ogni udienza, ad ogni articolo, ad ogni chiacchiera rionale, lei sarebbe stata nuovamente violentata. E io che vantaggio ne avrei tratto? Al massimo uno sconto di pena, qualche anno di libertà da scambiare con una montagna di fango rovesciata sulla mia bambina.
“Va bene” le dico. “Sarà il nostro piccolo segreto. Adesso vai a casa e brucia il tuo diario azzurro. Non dovrai mai più ricordare cosa è successo in quel maledetto bagno”.


Caro diario, oggi, quando ho visto mio padre tagliare la gola al Cecchi ho pensato di stare sognando.
Oh, ma forse bisogna fare un passo indietro, perché mi sono accorta che quello che ho scritto ieri sera può essere facilmente frainteso. Mi rendo conto solo adesso di quanto sia ambigua quella frase, e forse anche tu, come il mio povero babbo, hai capito male.
Facciamo un passo indietro.
Circa due settimane fa si è tenuta a scuola un'assemblea d'istituto, una noiosissima riunione dove il rappresentante parla delle politiche scolastiche, mentre tutti gli altri ascoltano l'Ipod, giocano col telefonino, o fumano di nascosto. Mancavano delle sedie, e la prof di modellato mi aveva spedito a prenderne un po' al piano interrato.
Scendo le scale che già mi giravano le scatole all'idea di risalirle carica di tutte quelle sedie. Io sono una artista, mica una facchina! Comunque, apro la porta del magazzino cercando di fare il massimo silenzio, e mi guardo intorno nell'oscurità dello stanzone. Più di una volta, tra i cavalletti e le tavolette ammassate alla rinfusa, ho avvistato qualche schifoso topo.
Un rumore soffocato attira la mia attenzione. È continuo e ritmato e sembra provenire da in fondo alla stanza.
Mi avvicino senza fare casino, mentre il rumore si mescola a quello che apparentemente sembrava un lieve lamento. Giro intorno ad una copia in gesso della Venere del Canova e improvvisamente li vedo. La professoressa di chimica e il bidello, quello nuovo, quello grande e grosso che gioca al calcio in costume. Sì, caro diario, proprio il Cecchi.
In un primo momento non so perché l'ho fatto, ma ho preso il mio videofonino e gli ho fatto una foto. Erano venuti proprio bene, lei con la bocca socchiusa e lui tutto sudato che ci dava dentro con il pantalone calato alle ginocchia. Non gli ho disturbati oltre, ho preso le mie sedie e li ho lasciati fare. Loro, indaffarati com'erano, non si sono accorti della mia presenza.
La sera stessa ho stampato una bella foto dei due amanti e ho aspettato la pausa pranzo del giorno dopo per raggiungere la prof di chimica che si stava gustando beatamente una Camel light.
Non credo che suo marito sarebbe contento di vedere questa foto”. Le ho detto mentre le mostravo lo scatto del giorno prima. Lei ci è veramente rimasta di merda e le è anche caduta la sigaretta di mano.
Sì, lo so che abbiamo avuto delle piccole tensioni, ma d'ora in poi, possiamo diventare grandi amiche. Dobbiamo solo venirci un po' incontro. Per prima cosa quel quattro che ho preso all'ultima interrogazione vorrei che diventasse un bel sette, anzi, facciamo otto. Poi, visto che le vacanze si avvicinano, avrei giusto bisogno di un contributo per il viaggio che voglio fare. Che ne direbbe di un migliaio di euro?”
Se avesse potuto mi avrebbe ammazzata di botte, le si leggeva in faccia, ma mi ha detto: “va bene”.
Non so se la prof ci ha ripensato o se ne ha parlato con il suo stallone, ma lui ha deciso di affrontarmi nell'unico modo che conosce. Mi ha beccato in bagno e sbattendomi al muro mi ha detto: “Adesso me la dai, piccola troia!”. Intendeva la foto, naturalmente, c'era già la prof che gli dava il resto.
Ero nella merda, così gli ho dato la foto. Ma a quello stronzo non bastava, ha iniziato a minacciarmi, diceva che a scuola mi avrebbe reso la vita impossibile e che lo avrebbe detto anche a mio padre.
Eh, sì, caro diario, ero sinceramente preoccupata.
Mi stavo arrovellando il cervello alla ricerca di un modo per tappargli la bocca, poi, sei arrivato tu, con quella frase ambigua che ha messo in testa a mio padre l'idea che fossi stata stuprata. L'ho capito durante il colloquio in caserma e ho sfruttato l'occasione.
Mio padre starà in galera per un bel po' di tempo, e io sarò finalmente libera di vivere la vita che voglio. Dopo la morte della mamma, lui è diventato più ossessivo di lei, se possibile, ancora più soffocante. Continuava a vedermi come la bambina che non sono più. Mi sembrava di rivivere la situazione dello scorso anno con mia madre, sempre appiccicata, sempre apprensiva e invadente. Soffocante. Stavo per raggiungere il limite di sopportazione anche con lui, ma lui, grande e grosso com'è, non sarebbe stato altrettanto facile da spingere giù in una scarpata.

Fine

Nessun commento:

Posta un commento